Ad ascoltare i candidati alla carica di Presidente della Commissione europea – Juncker, Verhofstadt, Bové e Schultz – il 9 maggio dal Salone dei Cinquecento a Firenze e su Rainews24, si potevano trarre una rassicurazione e un segnale di forza dell’Europa: politica economica, politica estera e di difesa, rapporto dinamico e vivo tra le istituzioni, priorità politiche. Anche Bové, uno dei leader del movimento no-global, parlava nel linguaggio europeo, e condivideva metodi e concetti che furono di Jean Monnet, primo tra tutti il principio che attribuisce alla Commissione il ruolo di motore indipendente, collegiale ed “europeo”, del processo di integrazione.
L’Europa non va bene, però, ed è a molti evidente che occorra oggi un cambio di visione.
Yves Mény, a lungo Presidente dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze e ora Presidente della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa ha redatto un breve articolo per il Mulino (Unione europea: too big to fail?, Il Mulino, 2/2014, pp.183-198) che testimonia la rottura della visione tradizionale. E’ un testo che va letto e conservato.
Mény prende in considerazione sei classici postulati/paradigmi: lo “spill over”, “wider is wiser”, “almeno nella pratica Europa e Unione europea sono la stessa cosa”, “l’incremento del commercio è necessariamente positivo per i partner degli scambi”, “un ristretto gruppo di funzionari europei provvede al processo regolativo per il bene di tutti e spetta agli Stati membri applicarlo”, “l’elezione diretta del Parlamento europeo avrebbe prodotto automaticamente un sistema democratico”.
La rottura dei sei postulati è descritta con franchezza e anche con una certa brutalità. Lo spill over (il trascinamento di una nuova competenza comune a seguito degli effetti della competenza attuata) si è bloccato per le resistenze degli Stati membri che impongono revisioni dei Trattati impossibili a realizzarsi; l’allargamento è un fatto artificiale di cui ancora tutti hanno paura; l’universalismo dell’adesione all’Unione è un concetto astratto e idealista, foriero di conseguenze impreviste (Ucraina, Svizzera, ma anche Bulgaria e Romania); esiste una realtà di squilibri commerciali senza che sia accompagnata da meccanismi di perequazione; il dispotismo illuminato ma centralista dei processi decisionali dell’Unione (riecheggiando l’indipendenza della Commissione alla Monnet), è di fatto imposto a territori e Stati che non si possono sottrarre, ma che fanno buon gioco, adattandosi o riducendo l’impatto di alcune delle decisioni, anche non adeguandosi; è infondata la narrazione della democrazia attraverso il parlamento europeo, il quale, se pur concretamente esiste, non è accompagnato dall’humus e dal contesto che costituiscono la realtà democratica, dalla rappresentatività alla partecipazione degli individui e dei gruppi, dalla scelta al controllo dei governi.
Il testo di Mény è importante anche nella seconda parte, in cui le considerazioni sono più libere ma anche più incerte, rivolte come sono al futuro. Le tre prospettive – tirare a campare, disintegrare, fare un salto radicale – sono già sentite, ma suona utile la loro fredda elencazione. La prima, “sopravvivere” – una specie di “tirare a campare” – è quella dominante, in cui l’inerzia del progetto domina sugli errori e sui sovraccosti, economici, politici e sociali, indotti dalla crisi, ma in cui si trae comunque vantaggio dalla scala, cioè dalla condivisione europea di politiche, rischi, ruolo. La seconda è quella dello smontaggio, cioè della “dis-integrazione” europea, cioè della riduzione progressiva e gestita della condivisione di politiche e decisioni, in cui si ritrova per esempio la posizione di Cameron. La terza è quella del “salto radicale”, promossa dagli anti-europei: uscire dall’euro, dall’Europa, recuperare lo stato nazione, in un fronte che unisce Lega Nord, lepenisti 2.0 ecc.
Riconoscendo una maggior probabilità al primo scenario (“sopravvivere”) e lasciando intravvedere contaminazioni tra le diverse ipotesi – nel testo di Meny si trovano anche alcune indicazioni e segnali difficili da incasellare.
Il trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance prevedeva l’entrata in vigore dopo che 12 su 17 stati dell’eurozona l’avevano ratificato: è una rottura almeno parziale, e sebbene dettata dalla crisi, del meccanismo dell’unanimità nato con la “chaise vide” di De Gaulle e con il compromesso di Lussemburgo, sia pure sotto le usuali vesti del trattato internazionale. La Corte costituzionale tedesca, “arcigna guardiana” della Legge fondamentale, ha di recente chiesto l’opinione”pregiudiziale” alla Corte di giustizia europea, con il significato politico sui primati delle fonti del diritto (anche costituzionale, quindi) che accompagnano il gesto.
Chi ha osservato il dibattito tra i candidati a Presidente della Commissione, a Firenze, il 9 maggio, avrà notato ugualmente la novità del cambiamento. Mentre si sviluppa la crisi, è in corso infatti una federalizzazione dell’Unione europea. E’ una federalizzazione tecnica secondo Mény, ma anche con risvolto politico, se il dibattito al Salone dei Cinquecento va inquadrato nell’humus di una democrazia in costruzione, che sotto un Parlamento europeo ancora artificiale e astratto inizia a sviluppare alcuni partiti europei e a produrre un dibattito televisivo tra candidati.
Il cantiere europeo è stato chiuso a soffrire nei piani “B” dopo il referendum francese e quello olandese del 2005.
Oggi, nel 2014, si vedono di nuovo operai al lavoro..
(Yves Mény, L’Unione europa,: too big to fail?, “Il Mulino”, 2/2014, pp.183-198)