Con la riforma costituzionale del 2001, mentre si ampliavano ruolo e competenze delle Regioni, si stabilì anche di rafforzarne la capacità operativa. Le responsabilità trasferite richiedevano Regioni in grado di gestirle con efficacia.
Le politiche di accentramento statale, che pure resistevano in qualche parte dell’amministrazione, erano fallite: un giudizio concreto e confermato nei decenni, sull’esito dell’organizzazione umbertina post-unitaria, sugli effetti del modello statuale fascista, sulle dispersioni e inefficienze dello stato accentrato repubblicano. Una lunga battaglia politica e una densa letteratura guardava al decentramento e anche al federalismo, da Sturzo a Gobetti, da Cattaneo al dibattito della Costituente, da Salvemini a Emilio Lussu e poi fino alla Lega. Poi, più sommessamente, il decentramento e la sua attuazione si preparavano con libri, decisioni, azioni di sindaci, partiti, uffici di programmazione, centri di competenze, di discussione e di elaborazione.
Pur così convinti, v’era tuttavia un timore diffuso: di ritrovare a livello regionale le stesse difficoltà e improvvisazioni già sperimentati a livello centrale e specialmente in alcuni luoghi del Paese. Lo slogan contro “un nuovo accentramento regionale” veniva dalle pattuglie rimaste degli statalisti, ma il dubbio sul rischio di trovarsi Regioni incapaci e maldestre era assai diffuso. Anche perché, all’alba della riforma costituzionale, le Regioni – escluse quelle speciali del nord – erano sicuramente maldestre.
Era quindi necessario assicurare una forte capacità di governo regionale, perché la riforma e la modernizzazione si compisse sia nelle competenze (con il Titolo V), sia nella forma della gestione (con un nuovo rafforzato governo regionale). Il modello aureo di riferimento era allora l’elezione diretta del sindaco, che sembrava aver stabilito una nuova responsabilità diretta, e di prossimità, tra decisore e gli elettori. Eravamo quasi a metà dell’epoca di Berlusconi, e tutti erano conquistati dalle facce, dalle soluzioni individuali, dalla capacità dei singoli.
D’altra parte, vi erano anche buone ragioni per favorire un rapporto diretto tra i cittadini e il sindaco, saltando la fase della rappresentanza indiretta. Sul finale della prima repubblica, ogni singolo rappresentante eletto sembrava diventato un lobbista, pronto a far pressione su sindaco e assessori per ottener vantaggi: non solo per il proprio territorio o la propria rappresentanza politica, ma anche per piazzare Tizio o Caio in quella casa popolare o in quell’azienda municipale, o per intascare qualche soldo per il partito. La liquidazione dei consigli comunali, ridotti a poca cosa, fu quindi facile e si compì senza che si udissero voci contrarie.
Tuttavia, la profonda ragione del peggiore comportamento dei rappresentanti, cioè degli eletti, risiedeva nella caduta del senso civico che attraversava il Paese, pur con modalità diverse a seconda dei territori. La qualità degli eletti era scesa sotto la soglia di rischio. Il senso della missione, del compito pubblico era venuto meno. Nella crisi sociale e culturale del finire della prima repubblica, si trattava di una debolezza grave e radicale. A questa crisi politica e civile profonda, a questo problema centrale non si dava tuttavia risposta, e forse non vi erano neppure i mezzi per farlo. Erano in crisi anche i partiti – che pure erano centrali nella vita civile e politica e anche nella formazione delle classi dirigenti – e mal messe erano le voci provenienti dalla società civile: confuse, spesso corporative, in ritirata di fronte a modelli culturali che dell’irresponsabilità individuale e collettiva facevano bandiera. Anche a scuola non si insegnava quasi più educazione civica.
A questa crisi parve semplice rimediare con l’estensione del rapporto diretto tra il capo politico e i cittadini, nella convinzione che il cittadino avrebbe sempre ben saputo giudicare e rimuovere il sindaco incapace (o il governatore) con il voto alle elezioni. Una visione semplificata, una scorciatoia, che non tiene conto della complessità della nostra organizzazione politica e sociale e neppure delle lezioni storiche che ci vengono almeno dal Cinquecento. Perché il cittadino da solo può solo tentare di difendersi, ritirandosi in un cantuccio (spesso familiare) ed è capace di agire se trova il modo di dare forza collettiva a giudizi e volontà condivise, cioè per mezzo di mille forme possibili di associazione e partecipazione. Eppure, la semplificazione del “cittadino che vota il sindaco” è diventata un modello culturale, che dura fino ad oggi, e che si ritrova anche nella proposta del “Sindaco d’Italia”. Un disastro, con sindaci in difficoltà nel gestire i loro comuni come lo erano le giunte comunali prima della riforma.
Con le Regioni rafforzate nei compiti dal nuovo Titolo V si applicò comunque lo stesso metodo: elezione diretta del Presidente della Regione e drastica limitazione della capacità di influenza del Consiglio regionale sul governo. Anzi, si confermò la clausola secondo cui se il Consiglio avesse votato la sfiducia, si sarebbe andati a nuove elezioni. Entrò nel linguaggio, col latinorum tipicamente nazionale, la formula “Simul stabunt simul cadent”, in base alla quale il Presidente della Regione “a suffragio universale e diretto” quando cade, porta con sé la caduta del Consiglio Regionale, anch’esso eletto direttamente. Certo gli Statuti avrebbero potuto cambiare quest’impostazione, ma la Corte costituzionale e il “sistema” nazionale si sarebbero evidentemente opposti, come avvenne, poi, in diverse occasioni.
A oltre dieci anni di distanza, il problema di fondo non è cambiato. Le classi dirigenti nazionali e regionali – politiche e amministrative, risentono della crisi civile, di relativa indifferenza sulle responsabilità, sul senso di missione che dovrebbe essere loro proprio: si fanno gli affari loro. Le modalità di selezione non sono mutate, la qualità degli amministratori è spesso bassa, e il rigido meccanismo di elezione creato nei comuni e nelle regioni non ha migliorato il quadro precedente alla riforma. I comuni italiani, salvo nobili casi, in assenza di buona classe dirigente, annaspano, facilitano speculazioni, lasciano andare le strade e i marciapiedi a ramengo. I giornali – anche locali – non li seguono, infastiditi dalle loro arroganze, preoccupati delle loro reazioni e dai loro avvocati. La gente – il cittadino elettore – lascia perdere, e cerca di sopravvivere, come nel seicento manzoniano. In gran parte del Paese mancano le voci realmente civili e abbastanza forti, dentro e fuori la politica. Restano un diffuso teatrino e molte sceneggiate, nei comuni e nelle Regioni, mentre le rappresentanze sono tagliate fuori. La riscossa viene da una rabbiosa e indignata protesta, priva di elaborazione, di struttura, di responsabilità, che riscuote anche discreto successo elettorale. Un disastro.
Ma il simul stabunt simul cadent porta con sé anche altri danni, proprio perché è troppo rigido. Infatti, una volta collocato al suo posto, l’eletto diventa politicamente inamovibile. Un Paese in crisi costante come l’Italia ha bisogno di flessibilità di governo. Se nel corso di una legislatura si scopre che il debito corre e che il presidente non è in grado di cambiare le cose, è necessario far cadere la giunta, ricomporre la maggioranza e adattare l’azione pubblica. Roberto Cota è invece inamovibile, malgrado i 13 miliardi di euro di debito e l’incapacità di chiudere ogni anno il bilancio di previsione della Regione Piemonte al 31 dicembre. Un governo di emergenza non è possibile, e neppure andare ad elezioni, perché comunque la maggioranza è blindata. Non si creda che i comuni stiano meglio: Ignazio Marino, che non dà cenni di soluzione al debito monstre di Roma, oltre 867 milioni di euro, non riesce a risolvere la questione della spazzatura e dell’area di Malagrotta, con tanto di infrazione comunitaria in arrivo.
Dove Comuni e Regioni funzionano è perché quei sindaci e governatori si sono costruiti un rapporto di rappresentanza alternativo, creando e cercando la rappresentanza buttata fuori dalla porta, malgrado la legge e il sistema elettorale: vanno in giro per la città, parlano con i cittadini e le associazioni, trattano con le domande, gestiscono le pressioni, discutono con l’amministrazione e quando possono danno risposte. Tuttavia, se il sistema si blocca, se le grane sono troppo grosse e il governatore o o il sindaco è troppo piccolo, allora anche la decisione è bloccata. Resta solo la magistratura, una specie di ultima sponda. Il potere giudiziario, per sua natura, interviene per ragioni estranee ai temi politici. Colpisce quindi i fattori collaterali che inevitabilmente emergono in situazione di crisi: spese casuali o folli dei gruppi consiliari, oppure pasticci di ogni genere in molte giunte comunali o regionali incapaci di decidere e governare, dagli scandali edilizi o all’inquinamento.
Ormai, solo la magistratura può far cadere Sindaci e Governi regionali. L’interruzione per via politica delle esperienze peggiori di governo non si può più fare. Cota resta al suo posto, perché non c’è nessuno in Consiglio regionale che lo può sfiduciare, che può dar vita ad un governo di emergenza. E non v’è possibilità di riadattare seriamente la composizione del governo, perché l’elezione diretta ha ridotto i margini di flessibilità politica, ha bloccato consigli comunali e regionali. E’ impossibile un governo alternativo. Nel 2011, se avesse prevalso la logica del “Sindaco d’Italia”, con lo spread a mille, Berlusconi avrebbe potuto e dovuto restare al suo posto, non avrebbe adottato alcuna decisione, l’Europa sarebbe andata a ramengo e con lei l’Italia.
Bisogna rimettersi al passo. Bisogna ripristinare la forza e il ruolo di due elementi fondamentali della democrazia rappresentativa: le assemblee e la società civile.
Il primo elemento è il ruolo reale, civile e politico della rappresentanza, con le sue funzioni di controllo, di decisione, di critica e di elaborazione, che vengono espresse nelle assemblee elettive. Il rapporto diretto tra elettore e un solo rappresentante politico va rivisto profondamente, caso per caso, Regione per Regione. Il simul stabunt simul cadent va fatto saltare al più presto, in funzione dei territori e della loro vitalità civile. Bisogna rimettere mano alle leggi elettorali regionali e ai singoli Statuti, restituendo alle assemblee rappresentative un ruolo reale, analogo a quello delle altre assemblee rappresentative regionali e locali in Europa. Dobbiamo introdurre sistemi di controllo, di trasparenza e di partecipazione che aggancino le assemblee elettive alla società civile, per mezzo di associazioni e di partiti aperti e trasparenti. Se l’assemblea controlla il governo, la società civile deve tenere entrambi sotto osservazione.
Il secondo elemento riguarda appunto la reale vitalità della società civile, senza la quale la rappresentanza politica nelle assemblee elettive diventa lobby e basso traffico di interessi. Occorre ridare fiato alle forme di rappresentanza politica che con cui i cittadini si esprimono attraverso le organizzazioni collettive, movimenti e anche partiti, proprio come dice la Costituzione. Occorre restituire responsabilità e spazi di libertà alla stampa e alla comunicazione, che devono ritrovare coraggio critico e responsabile, oggi confinato a pochi ambiti e persone. Farmacisti, notai e giornalisti, operai e insegnanti, mamme e nonni devono ritrovare la voglia di seguire in modo attivo e civile la vita politica locale e regionale, oggi abbandonate alle loro stanze. Occorre un processo culturale di ricostruzione del civismo, della partecipazione politica responsabile, a partire dalla scuola e dalle lezioni di educazione civica, ma anche dal riconoscimento sociale del ruolo delle associazioni, dei movimenti e anche dei partiti. Occorre modernizzare il contesto in cui opera la società civile, offrendo poche regole semplici – per esempio ai partiti – come avviene negli altri Paesi europei ed occidentali.
Ecco il punto: come avviene negli altri Paesi europei e occidentali.