Il 27 gennaio, il ministro degli esteri danese Jeppe Kofod ha detto che il centinaio di soldati che si erano da poco uniti alla task force europea Takuba di contrasto al jihadismo se ne sarebbero tornati a casa dal Mali.
Tre giorni prima, il governo costituito con il colpo di Stato del maggio 2021 li aveva invitati a lasciare il Paese. L’aveva anche ribadito il 27 gennaio, e non era servita la nota congiunta degli ambasciatori di 13 Paesi dell’Unione europea, Italia compresa, di Regno Unito, Canada e Norvegia che richiamavano il governo maliano al rispetto degli accordi sottoscritti.
Il messaggio politico è d’altra parte più ampio: devono tutti tornarsene a casa, anche l’Italia, ma soprattutto la Francia. Il suo ambasciatore è stato espulso ed è rientrato in patria giovedì 3 febbraio, sebbene per il momento con un impatto modesto sulla campagna elettorale per le presidenziali ma con vari dubbi sul futuro della presenza francese della regione.
Sta d’altra parte naufragando l’impianto di sostituzione della missione francese Barkhane con la forza europea Takuba. Il vertice UE-Unione africana, che si terrà a Bruxelles il 17 e 18 febbraio prossimi, parlerà di disimpegno.
Il meccanismo delle sanzioni non sembra spaventare il governo militare del Mali. Ancora venerdì scorso, 4 febbraio, l’Unione europea ne ha adottate contro il primo ministro Choguel Maïga e altri quattro membri del governo non tanto provvisorio, visto che vorrebbe durare ben cinque anni prima di restituire il potere ai civili, malgrado le promesse di elezioni proprio in questo febbraio. Anche l’esclusione dal 1° gennaio del Mali – oltre che della Guinea e dell’Etiopia – dagli accordi commerciali con gli Stati Uniti (AGOA – African Growth and Opportunity Act) sembra importare poco. Le sanzioni della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (CEDEAO) generano tensioni più che ricadute efficaci.
D’altra parte, tutto il Sahel e l’Africa occidentale sono scossi da tensioni profonde. Il 24 gennaio i militari hanno preso il potere in Burkina Faso, rovesciando il governo di Roch Kaboré. Il 2 febbraio c’è stato un tentativo di colpo di stato in Guinea, mentre si teme per il Niger, poverissimo, in cui è peraltro presente la missione italiana di supporto bilaterale MISIN. Mali, Niger e Burkina Faso condividono la zona delle “tre frontiere” di maggior presenza jihadista, la Guinea è punto di approdo logistico.
Sono zone in cui i russi di Wagner conquistano posizioni: già ben consolidati in Repubblica centrafricana, a dicembre si sono dispiegati in Mali, come ha raccontato Startmag, si discute del loro ruolo nella sequenza dei colpi di stato così come nella campagna anti-francese.
La sostituzione della presenza militare occidentale (francese ed europea con il supporto statunitense), a favore della forza paramilitare russa di Wagner, si accompagna a proteste e sanzioni, che paiono una presa d’atto più che una risposta efficace. La politica di Joe Biden non sembra così diversa da quella di Donald Trump, che annunciò un disimpegno dal Sahel in coincidenza del vertice di Pau del 13 gennaio 2020. La Wagner va più per le spicce nel contrasto al jihadismo e ha un minor peso politico da sostenere quando ci sono vittime collaterali, rispetto agli occidentali e agli Stati in senso proprio. In un certo e cinico senso, per quanto indicibile, va anche bene.
Dal punto di vista politico, il mancato passaggio di capacità operativa tra la forza francese Barkhane e la task force europea Takuba prefigura un fallimento dell’europeizzazione in politica estera e di sicurezza comune nell’area del Sahel. Il difetto viene dal debole sostegno statunitense, dalle prudenze degli Stati membri e dalla fragile guida di Bruxelles. Josep Borrell, l’attuale Alto rappresentante, ne è il testimone primario. Gran prudente da presidente del Parlamento europeo, è stato ripescato alla politica estera europea nella logica merkeliana del far poco, dopo un qualche inaspettato attivismo di Francesca Mogherini, quand’era Alto rappresentante.
Infine, oltre che in Europa dell’Est, anche sul fronte africano si gioca la competizione tra Russia, Europa e Stati Uniti. È uno dei grandi bacini migratori verso l’Europa, strumento di pressione che si è già visto in Bielorussia, o in Siria e Turchia. Al più alto livello delle crisi migratorie africane, nel 2015, l’Unione europea voleva andare nei Paesi del Sahel a frenare le partenze, anche migliorando le condizioni di vita locali.
Anche questa è roba passata e battaglia persa, almeno per il momento.
in Start Magazine 7 febbraio 2022